Nel 1967 si festeggia il centenario della Federazione Canadese, che invita tutte le nazioni del mondo a partecipare all’Esposizione Universale di Montreal presentando le loro migliori realizzazioni nei vari settori della scienza e della tecnica.
Tra questi, l’Alfa Romeo viene selezionata dagli organizzatori per realizzare una vettura in grado di rappresentare la “massima aspirazione raggiungibile dall’uomo in fatto di automobili”.
Il presidente della casa milanese, Giuseppe Luraghi, affida all’uffico tecnico, guidato da Orazio Satta Puliga e Giuseppe Busso, l’incarico di realizzazione il telaio. A Bertone va invece lo studio dello stile per la carrozzeria e gli interni. Dei quattro prototipi realizzati e commissionati alla Carrozzeria Bertone su meccanica della Giulia, uno viene equipaggiato con il bialbero più potente, da 1600cc.
Alla fine degli anni sessanta, l’Alfa Romeo è un marchio molto popolare negli Stati Uniti, e il nuovo prototipo ottiene un successo superiore alle aspettative. I concessionari canadesi e statunitensi non possono che pressare l’azienda per l’avvio di una sua produzione in serie.
Messa alle strette, Alfa Romeo delibera l’industrializzazione del progetto, con l’importante modifica dell’adozione di un motore di maggior cubatura, più adatto al lignaggio del modello e alle aspettative del pubblico, soprattutto statunitense.
La scelta cade su un propulsore derivato dall’otto cilindri a V di due litri a carter secco della supercar 33 Stradale, con cilindrata aumentata a 2600cc per compensare la riduzione della potenza specifica, calata dai 130 ai meno esasperati 77cv/litro.
Una variazione tutt’altro che indolore, perché innesca, tra le altre cose, una serie di modifiche all’impostazione generale della macchina. Il corpo vettura viene rivisto nelle proporzioni, nell’inclinazione del parabrezza e nell’altezza e nella forma del cofano motore, al quale viene aggiunta una gobba con una vistosa presa d’aria dinamica per consentire l’alloggiamento del motore più grande.
Un lavoro mal digerito da Bertone, costretto controvoglia a sporcare la pulizia del disegno originale di Marcello Gandini. La scelta di un propulsore specifico porta poi con sé anche diversi problemi di messa a punto, tra cui alcune fastidiose anomalie di alimentazione in curva, risolte con l’adozione di un sistema di iniezione meccanica SPICA che creerà in seguito altri grattacapi ai proprietari.
E non è finita: la Montreal mostra anche diversi limiti alla trasmissione, derivata dalla famiglia Giulia a quattro cilindri, e al telaio, che pure era stato pensato per quelle meccaniche più leggere e compatte, e che su strada rende la Montreal precisa ma troppo morbida. Il risultato finale è quindi quello di una veloce e confortevole gran turismo più che di una coupé sportiva con meccanica derivata dalle corse, quale essa doveva essere.
La macchina definitiva viene presentata al Salone dell’automobile di Ginevra del 1970, ma per le prime consegne ci vogliono ancora due anni; iniziano infatti nel 1972, ben cinque anni dopo l’expo di Montreal. L’entusiasmo iniziale è ormai sopito da tempo e l’euforia degli anni sessanta e dello sbarco sulla Luna sta lasciando il posto alle atmosfere cupe dei settanta, con la crisi petrolifera e, da noi, il terrorismo degli anni di piombo.
Non il contesto migliore per vendere una grossa coupé da 200 cavalli, oltre 220 all’ora e un prezzo di 5.700.000 lire, ai quali sommare optional costosi come alzacristalli elettrici, vernice metallizzata e aria condizionata. E infatti la Montreal non si avvicina neppure al successo sperato dall’Alfa Romeo, nonostante resti a listino per ben sette anni. Ne vengono costruite solo 3925 unità, di cui appena 50 immatricolate tra il 1976 e il 1977. Ma forse questo contribuisce a renderla oggi una delle Alfa più ricercate, oltre che dalla meccanica più intrigante.