Pochi giorni fa è passato sotto silenzio, almeno da noi, un compleanno importante. Il 26 agosto di sessant’anni fa, infatti, vede la luce una delle automobili più iconiche al mondo: la Mini.
Dalle difficoltà nascono le idee migliori
I concetti chiave della Mini nascono sul classico tovagliolo di ristorante in concomitanza con la crisi di Suez del 1956, che causa, soprattutto in Europa un calo delle importazioni di benzina e un conseguente aumento dei prezzi; un’autentica mazzata per un continente in piena ripresa post bellica, in cui il benessere ancora è poco diffuso e, con esso, anche le automobili, costose da comprare e da mantenere. Tale situazione favorisce, soprattutto in Gran Bretagna, la diffusione di vetturette a tre ruote e bubble car; il gruppo BMC, British Motor Corporation, affida al progettista di origine greca Alec Issigonis il compito di progettare un’utilitaria a 4 posti e quattro ruote spinta dal piccolo 4 cilindri della Austin A35.
Issigonis riversa nel progetto una massiccia dose di originalità, ideando una vettura completamente nuova, caratterizzata dalle minuscole ruote da 10” ai quattro angoli della carrozzeria aggrappate a sospensioni a ruote indipendenti, dalla disposizione anteriore-trasversale del motore col cambio montato sotto, coppa dell’olio unica e radiatore laterale, dalla trazione anteriore e soprattutto capace di ospitare in maniera relativamente comoda quattro persone in appena 303 centimetri sfruttati magistralmente: ben l’80% dell’impronta a terra della vettura è infatti destinato ad abitacolo e bagagli.
Si narra che per disegnare gli ingombri della Mini e per ricavarne la sua stupefacente abitabilità, Issigonis si recò al porto, dove prese quattro corpulenti scaricatori e li fece accomodare su quattro cassette di legno, cercando di farli stare più vicini possibile. Poi, con un gesso, disegnò per terra il perimetro dell’abitacolo. Per contenere i costi di produzione, cerniere e saldature sono a vista. Comunque sia andata, sta di fatto che i vertici di BMC, dopo aver testato la Mini, ne restano entusiasti e ordinano l’immediato inizio della produzione negli stabilimenti Austin di Longbridge. La frittata è fatta, e qualche mese dopo la vettura debutta sia come Austin Seven che come Morris Mini-Minor, entrambe disponibili in allestimento standard o De Luxe.
Come successo due anni prima da noi con la nostrana Nuova 500, la Mini fatica ad affermarsi, a causa dell’originalità estetica e di alcune soluzioni “forti”, tra cui l’insolita posizione di guida a gambe divaricate e volante orizzontale, ma pian piano si fa apprezzare per la maneggevolezza e la tenuta di strada da vera sportivetta.
Spazio e sport
Nel 1960 viene lanciata la versione familiare della Mini, con passo allungato, portellone posteriore a doppio battente e finitura esterna in listelli di legno. Disponibile nella versione Austin (Seven Countryman) e Morris (Mini Minor Traveller), nei consueti allestimenti standard e De Luxe, viene affiancata nel 1961 dalla versione con carrozzeria interamente metallica e da una sgraziata versione 3 volumi con frontale ridisegnato, caratterizzato da una barocca calandra verticale.
Anche in questo caso la vettura esce a doppio marchio: Wolseley Hornet (più economica) e Riley Elf (più lussuosa, con finiture interne in legno). Ma il 1961 è soprattutto l’anno del lancio della Mini Cooper, versione sportiva elaborata, nonostante le perplessità di Issigonis, da John Cooper, titolare dell’omonimo team di Formula 1. La ricetta Cooper prevede un incremento di cilindrata (da 848 a 997 cc), 2 carburatori SU da 1.25, freni anteriori a disco e assetto sportivo. Nonostante una potenza comunque contenuta (55 cv) la Cooper acquista una spiccata personalità sportiva, in grado di esaltare le doti stradali “naturali” della Mini, e i risultati sui campi di gara non tardano ad arrivare, con la vittoria di classe conquistata da Timo Mäkinen al Rally di Monte Carlo del 1963.
Sul finire del 1964 tutte le Mini adottano le moderne sospensioni Hydrolastic, mentre la sportiva Cooper viene affiancata dalla più performante Cooper S, con motore di 1071cc da ben 70 cv. Con la Cooper S la Mini si consacra definitivamente come autentica “ammazza giganti”: in versione preparata da 85 cv si aggiudica la vittoria assoluta al Monte Carlo del 1964 precedendo di pochi secondi una gigantesca Ford Falcon V8 da 285 cv; sarà la prima di 4 edizioni consecutive mitiche, che vedranno la Mini sbaragliare tra neve e tornanti una concorrenza agguerrita e ben più potente, nonostante la squalifica del 1966. Nel 1965 poi, Aaltonen /Ambrose vincono il Campionato Europeo Rally (il mondiale non esiste ancora), e nel 1967 la Mini si impone clamorosamente anche al Rally dell’Acropoli e al Mille Laghi.
Tornando al mercato del 1964, la gamma sportiva si riarticola su Cooper con motore portato a 998 cc e 55cv e ben tre modelli Cooper S: i nuovi 970cc da 65 cv e 1275 cc da 76 cv affiancano infatti la 1071 cc già a listino, creando così uno squadrone in grado di competere efficacemente in tutte le categorie, all’epoca divise per cilindrata; persino un giovane Niki Lauda conosce il mondo delle corse a bordo di una Cooper S.
Dalla Mark II alla Clubman
Nel 1967 viene presentata la Mini seconda serie (MK2), prodotta fino al 1969. Esternamente le novità si limitano a un leggero restyling, diversificato in base alle versioni. Le Mini berlina adottano una calandra (anche sulle wagon) e un lunotto più grandi, così come le luci posteriori, ora rettangolari, mentre vengono abbandonati gli interni vivaci in luogo di un più austero nero integrale. Viene creata poi una nuova versione Super De Luxe, spinta da un 998 cc da 38 cv, mentre le “saloon” Wolseley Hornet e Riley Elf si arricchiscono di vetri discendenti, cerniere delle porte integrate, nuovo impianto di ventilazione e nuove trasmissioni, con la manuale migliorata e la possibilità di ottenere, a richiesta, un’automatica a 4 rapporti, soluzione che anticipa l’introduzione della nuova Mini Matic l’anno seguente.
Intanto la travagliata storia del gruppo BMC, divenuto nel frattempo British Leyland, porta a una nuova piccola rivoluzione della gamma Mini. Nel 1969 escono di scena Hornet ed Elf, mai realmente apprezzate, e nell’ottica di una importante riorganizzazione aziendale, Mini diventa un marchio a sé stante, slegandosi quindi dalla confusionaria distinzione in Austin e Morris.
La nuova Mini perde definitivamente le cerniere a vista su porte e baule, i vetri scorrevoli (che diventano finalmente discendenti) e le sospensioni Hydrolastic; la station wagon, ora solo metallica, è ribattezzata Traveller. Viene poi allestita una versione “premium”, ammodernata sia fuori che dentro: è la nuova Mini Clubman, con inedito frontale squadrato e allungato e interni ridisegnati, disponibile sia in versione berlina che nella più armoniosa Estate, corrispondente alla Traveller con muso “tondo”.
L’avvento della Clubman relega la Mini classica al ruolo di modello base, spinta ormai dal solo motore di 848 cc (potenziato a 37 cv), mentre alla Clubman va il più brioso 998 cc portato a 44 cv. Le Cooper resistono in versione 1.0 e Cooper S 1.3 fino al 1971, poi sostituite dalla Clubman GT, spinta dal 1275 cc della Cooper S in versione monocarburatore da 58 cv.
Nel 1974 le Clubman adottano il 1098 cc da 48 cv e la versione GT passa ai cerchi da 12 pollici ma, nonostante gli affinamenti e il progressivo impoverimento della gamma Mini classica, quest’ultima resiste stoicamente inficiando il successo della versione più ricca, al punto che nel 1976 si guadagna il suo quarto lifting. La Mini MkIV viene rivista disegnando una nuova calandra, nuovi interni in tessuto, nuova strumentazione unificando la meccanica al solo 998 cc da 42 cv al quale, nel 1979, torna a far compagnia il vecchio 848 cc.
Chi la dura la vince
La Clubman, pensata per pensionare la vecchia Mini, esce dai listini nel 1980, rimpiazzata dall’Austin Metro; la “tonda” resiste invece gagliarda fino al 1982, anno in cui viene sospesa la produzione anche della Clubman Estate, che era piaciuta molto più della berlina. A questo punto la gamma Mini viene ancora una volta riorganizzata: l’entry level è la nuova Mini 1.0 E, riconoscibile per i paraurti neri, la strumentazione ridotta e i rivestimenti economici, seguita dalla Mini 1.0 HLE, con interni di qualità superiore e strumentazione davanti al guidatore, e dalla Mini Mayfair, di fatto una HLE con interni ancor più curati. Nel 1984 arrivano poi carreggiate allargate, freni anteriori a disco, codolini in plastica nera, nuovi rivestimenti e, tra il 1985 ed il 1991, vengono lanciate una miriade di versioni speciali: Mini 25, Mini Flame Red, Mini Red Hot, Mini Jet Black, Mini Check Mate, Mini Studio 2, Mini Piccadilly, Mini Thirty e tante altre, spesso specifiche per i singoli mercati.
La Mini continua a vendere indisturbata, il tempo per lei pare non passare mai e, vecchia ormai di oltre trent’anni, la piccola macchinetta inglese vive una seconda giovinezza, nonostante le norme su sicurezza e inquinamento si facciano sempre più stringenti. Nel 1990, quello che è nel frattempo diventato il Gruppo Rover, provvede a rinforzare la scocca e a dotare il motore di alimentazione a iniezione elettronica single point e marmitta catalitica. La gamma si restringe al solo motore da 1275 cc e alle versioni più lussuose Mayfair e British Open Classic, affiancate nel 1991 da una nuova versione Cooper con carrozzeria bicolore e motore portato a 63 cv. Il 1992 vede addirittura la nascita di un campionato monomarca di velocità su pista riservato a queste versioni, ben 33 anni dopo il lancio del modello, seguito, nel 1993, dalla prima versione Cabriolet ufficiale.
Nel 1994 il Gruppo Rover è rilevato da BMW, artefice, nel 1997, dell’ultima operazione di ammodernamento della gamma Mini, arrivata ormai alla settima generazione e aggiornata con motore ad iniezione elettronica multipoint, airbag lato guida, barre antintrusione, cinture di sicurezza con pretensionatore, radiatore frontale e nuovi interni. La gamma si articola sulle versioni Classic, Cooper e Cooper Sport-Pack, riconoscibile per i quattro faretti supplementari, i cerchi specifici da 7×13″, le carreggiate allargate con vistosi codolini in tinta, gli interni in pelle con finiture in radica. Nel 1999 esce l’ultima versione limitata celebrativa, la 40th Anniversary, mentre il 4 ottobre 2000 la Mini saluta definitivamente le linee di produzione, con l’edizione speciale Final Edition che comprendeva quattro modelli: la Seven, la Cooper, la Cooper Sport e la Knightsbridge, delle autentiche instant classic da collezione.
L’ultimo esemplare di Mini costruito, una Cooper Sport rossa, esce dalla catena di montaggio guidata dalla cantante Lulu, prima di imboccare la strada per l’Heritage Motor Centre di Gaydon, dov’è tuttora esposta accanto alla prima Mini prodotta. Nello stesso anno BMW cede il Gruppo Rover, mantenendo la proprietà del solo marchio Mini con cui, l’anno seguente, lancia la nuova generazione, che nulla ha da spartire con la vecchia a parte qualche furbo richiamo stilistico.
Le Mini italiane e quelle mai nate
La Mini rappresenta un caso di longevità piuttosto raro nel mondo dell’automobile, con oltre quarant’anni di produzione; pochissime vetture, tutte utilitarie, possono vantare un simile risultato. Ma nel tempo si è tentato più volte di sostituirla, non immaginando una carriera tanto lunga e gloriosa. Un primo tentativo viene affidato allo stesso Issigonis, che nel 1968 sviluppa la 9X: una vettura ancor più piccola e abitabile della Mini originale e dotata di portellone posteriore, che però non entra mai in produzione per una questione di costi, alti in un momento (uno dei tanti) in cui il gruppo BMC non gode di salute particolarmente buona. Ma l’idea di sostituire la Mini resta viva, e altri progetti vengono sviluppati nel tempo, come la Minissima del 1973 disegnata da William Towns, o l’ipotesi di costruire e vendere anche nel Regno Unito la Innocenti Nuova Mini, lanciata in Italia nel 1974 e apprezzata oltre Manica per le finiture migliori. Nessuna di queste idee si concretizzerà. Anche gli altri progetti sviluppati negli anni Settanta (codici ADO 74 e ADO 88) confluiranno poi in modelli di dimensioni maggiori, che affiancheranno la Mini invece di sostituirla (tra questi c’è la Metro).
La Innocenti Mini è il modello di maggior importanza tra quelli prodotti e assemblati al di fuori del Regno Unito, come ad esempio in Spagna col marchio AUTHI e in Australia. Prodotta su licenza a Lambrate tra il 1965 ed il 1975 per aggirare i dazi sulle vetture straniere, la Mini italiana si differenzia per interni più ricchi e meglio rifiniti e diverse componenti specifici (fari, calandra, baule) spesso realizzate da fornitori italiani. Anche meccanicamente le Mini nostrane si differenziano da quelle britanniche: tutte le Cooper sono dotate di servofreno (le inglesi solo sulle Cooper S), e tutte quelle con cilindrata dal litro in su montano un rapporto al ponte più lungo.
Per anticipare la temuta obsolescenza della vettura, anche Innocenti sviluppa un nuovo modello, totalmente originale, basato su meccanica Mini; l’incarico viene affidato a Bertone che realizza un disegno caratterizzato da una linea a cuneo molto moderna e pratica, con portellone posteriore e un baule dalla capienza e dalla capacità finalmente accettabili. La vettura, proposta con due motorizzazioni e pure in versione sportiva griffata De Tomaso, suscita timore in casa Mini, che si ritrova a fornire gli organi meccanici a una vetturetta graziosa e intelligente che può paradossalmente affossare la sua stessa progenitrice. Per questo si decide di interrompere prima la fornitura di telai e motori (sostituiti poi da 3 cilindri giapponesi di origine Daihatsu) e poi si nega pure l’utilizzo del nome Mini, tanto che le ultime Innocenti con carrozzeria Bertone si chiameranno Small 500 e 990.
Simbolo di un’epoca
La Mini è considerata una delle auto più famose al mondo, al pari di Maggiolino e Ford T, che però hanno venduto ben più dei suoi 5 milioni e spicci di esemplari. I meriti della Mini sono infatti altri: è una vettura che, nonostante le vicissitudini industriali che l’hanno portata a vestire ben sei marchi diversi, ha attraversato ininterrottamente sessant’anni di storia contemporanea, muovendo e motorizzando generazioni che hanno vissuto le correnti hippie e pop degli anni sessanta, quelle psichedeliche e cupe degli anni settanta, quelle esaltanti e ambiziose degli anni ottanta, arrivando a sfiorare il nuovo millennio come una instant classic, una vettura storica da ordinare in autosalone, sempre sulla cresta dell’onda, sempre senza perdere un colpo. La Mini è stata Davide che ha sconfitto Golia sui tornanti del Turini, è stata la macchinina popolare che ha sedotto decine di star del cinema e della musica, conquistando addirittura il granitico Enzo Ferrari, grazie alle sue incredibili doti di piccola grande auto, tanto minuscola quanto incredibilmente spaziosa e pratica, con quelle vasche portaoggetti chilometriche e l’enorme mensola al posto del cruscotto.
E poi ci sono le spartane ma divertentissime Moke, le rarissime versioni “spiaggina” degli anni sessanta, le familiari, le van, i pick-up, le personalizzate estreme e folli che l’hanno mostrata al mondo cortissima e lunghissima, ribassata all’inverosimile o alta su ruote da Big Foot americano, utilitaria ai minimi termini, micro vettura snob simbolo della swinging London o autentica limousine compatta come nelle versioni allestite da Radford o Wood&Pickett. Autentico manifesto viaggiante di un’epoca e di uno, anzi, di tanti stili di vita, la Mini classica pare non si sia ancora rassegnata definitivamente a diventare un cimelio: è già ordinabile la nuova versione extra lusso “Remastered” firmata della britannica David Brown Automotive. La Mini è ancora tra noi, e lo resterà ancora a lungo, coi suoi sessant’anni portati egregiamente. Buon compleanno!
Michele Di Mauro