NAVIGANTI, NAVIGATI, NAVIGATORI
Da quando sono iniziate le corse in automobile, si è pensato che a bordo di questo nuovo mezzo che camminava da solo, oltre al pilota o meglio chauffeur, ci doveva essere un passeggero.
Visto che “gli automobili” (strumenti maschili ancora in attesa della proverbiale sentenza dannunziana che ne sanciva la loro femminilità) pagavano lo scotto tecnico dei primi passi, si pensò che accanto al conducente era necessario collocare un esperto di motori.
Fino al dopoguerra questa figura attaccata al sediolo di destra, a volte in scomoda posizione, ricopriva con poca gloria ma tanta passione il ruolo di “meccanico”, pronto ad intervenire ogni qualvolta il mezzo denunciasse qualche problema. Sempre presente nelle fotografie in bianco e nero, molte volte sbiadite dal tempo, il meccanico è negli anni eroici veramente il personaggio più coraggioso ed anche incosciente dell’equipaggio. Se pensiamo alla guida spericolata ed indiavolata di un Tazio Nuvolari, non possiamo neppure immaginare ciò che gli occhi e la mente di Gianbattista Guidotti provavano quando si vedeva davanti alberi, fossi, strapiombi o muri, schivati all’ultimo istante dall’asso mantovano. Difficile anche valutare la “lunga” ed impossibile Mille Miglia del 1935, vinta da Carletto Pintacuda con l’Alfa Romeo 2900 B al cui fianco il marchese Della Stufa si fece ben 14 ore “seduto di traverso” nell’angusto spazio di una monoposto da gran premio, volutamente adattata per due piloti mingherlini da Enzo Ferrari. Tornando indietro nel tempo, si può leggere la storia di Pietro Bordino quando, ancora ragazzino, salì sulla Fiat ufficiale di Vincenzo Lancia, allora pilota acclamato e corse la Targa Florio, la Coppa Imperatore, il Gran Prix de France, la Coppa Gordon Bennet, traendo quell’infinita passione che lo portò a diventare a sua volta uno dei più forti campioni dell’era pionieristica. Solo verso la fine degli anni trenta e soprattutto nel primo dopoguerra, la figura del “meccanico” sparì. Ormai le vetture erano affidabili; leggerezza ed aerodinamica cominciano ad essere importanti al punto che anche nelle gare su strada, ad iniziare dalla Mille Miglia del 1954, si poteva correre da soli. Fu proprio alla Mille Miglia, quella del 1955 vinta da Stirling Moss e Dennis Jenkinson, che il “meccanico” prese una forma diversa: divenne il “navigatore”. Infatti fu il famoso rotolo di carta, sul quale il giornalista inglese “segnò” i tratti più impegnativi e pericolosi del percorso, ad essere la mossa vincente per la Mercedes 300 SLR ufficiale che trionfò quell’anno alla media record, rimasta imbattuta, di 157,65 km./ora.
Ma con la fine delle grandi corse su strada e la veloce crescita dei gran premi di Formula 1, questa figura si perse nuovamente nell’anonimato. Rimase invece nella veste di passeggero, con il preciso compito di “sdoppiare” sulle fotocellule e sui pressostati, nelle gare di regolarità degli anni cinquanta per passare poi al ruolo fondamentale di co-pilota, nei primi anni sessanta con una nuova disciplina nata dalla regolarità stessa: i rallye. Furono proprio i rallye a dare una nuova dimensione al “passeggero”, soprattutto con la calata dei piloti nordici che portarono una novità assoluta per noi: le note. Infatti noi europei del sud fummo presi in contropiede da questo sistema che dava un grosso vantaggio, unito alla incredibile destrezza di questi finnici abituati per gran parte dell’anno a muoversi su terreni “scivolosi” come neve e ghiaccio. Da quel momento il co-pilota, divenuto nel gergo “navigatore”, prese via via importanza, assumendo impegni sempre più specifici e basilari. Era il navigatore che organizzava le ricognizioni prima della corsa, dettava le note durante la gara, predisponeva i luoghi delle assistenze, “chiamava” la vettura all’ingresso dei controlli orari nel minuto esatto. Soprattutto il navigatore divenne il punto di riferimento per il pilota che “interpretava” la corsa secondo le istruzioni che riceveva dal “naviga”.
Si doveva trovare assieme il giusto ritmo di gara, la giusta cadenza vocale, il giusto anticipo nel leggere le note, mettendo così in condizione il pilota di impostare al meglio una curva, un tornante, una inversione. Questo correre sulla fiducia dava ottimi risultati ma certamente una nota sbagliata poteva portare a rovinose conseguenze. Bisogna anche ricordare in quale ambiente il navigatore operava. Farsi portare a spasso su strade sterrate, piene di buche, con continui sobbalzi, polvere o fango, guardare “fuori”, tornare a leggere le note, riguardare “fuori”, riprendere dal punto tale per centinaia di chilometri, certamente non era una cosa semplice. Oltretutto allora c’era anche il problema che le cinture di sicurezza non esistevano e quando arrivarono, non contenevano certamente il corpo come oggi; i sedili erano quelli di serie e solo verso la metà degli anni settanta furono obbligatori roll-bar, cinture a “bratella” e sedili avvolgenti con poggiatesta.
Ai tempi bisognava anche essere fisicamente preparati perché le prove speciali erano molto lunghe, cinquanta, sessanta chilometri. Le gare duravano giorni, con magari trenta ore di guida ininterrotte come il Sestriere che portava i concorrenti a Roma, Rimini, Belluno, Brescia, prima di ritornare al punto di partenza. Rallye di Sanremo, il 4 Regioni, l’Elba o il San Martino di Castrozza, ti facevano fare, in due notti, oltre 1.600 chilometri fra mulattiere sperse nei monti dove l’asfalto si vedeva alla partenza e poi all’arrivo. Va ricordato che in quei tempi, con distanze così lunghe, era il navigatore a prendere il volante negli snervanti trasferimenti.
Se negli anni eroici il “meccanico” era un passeggero incosciente, nei rally divenne un compagno insostituibile.Ma la cosa più assurda di questa figura, così importante ieri come oggi, è che divenne il capo espiatorio per il pilota che, se vinceva era bravissimo, ma se commetteva qualche errore, la causa ricadeva sul “secondo” che aveva sbagliato una nota. Da quel momento il “naviga” divenne l’uomo dalle larghe spalle, colui che era sempre pronto a prendersi le colpe, balzando alla cronaca per i propri errori e quasi sempre dimenticato nei trionfi.
Da allora sono passati quasi cinquant’anni ma poco è cambiato di questo costume o mal costume che sia. Oggi le tecnologie hanno sgravato il navigatore dai molteplici compiti. I punti di assistenza si svolgono in “parchi” predisposti dall’organizzatore (si è perso il gusto di “cercare” la propria assistenza nel buio della notte che: “doveva essere in quel piazzale lì, invece c’è il Jolly Club o la Tre Gazzelle. Forse il posto scelto era occupato, saranno più avanti ma, se invece erano indietro. Le vetture sono orami sicurissime, l’elettronica, l’informatica rendono tutto più semplice. Le cinture assicurano piena tranquillità, caschi e tute sono in materiali leggerissimi, comodi, ti lasciano vivere e respirare nel massimo confort oltre a proteggerti nella massima sicurezza.
Ma chi si ricorda il Valli Piacentine del 1977 quando divennero obbligatori tuta e sottotuta, passamontagna e guanti, in pieno mese di luglio con oltre trenta gradi? Tutti ci muovevamo come imbalsamati in quel sottotuta fatto di mutandoni lunghi fino alle caviglie e maglione tipo dolcevita che arrivava fin sotto al mento, spesso un dito, di un materiale ignifugo che sembrava lana grezza. Al solo pensiero che mancava ancora la tuta (la famosa SPT di colore azzurro che si cercava fino all’ultimo di tenerla arrotolata in vita), ci si sentiva male ancora prima del via. Un esercito di condannati, pronti per essere cotti in uno dei gironi infernali danteschi. In quel frangente però il navigatore era un privilegiato. La CSAI lo aveva esonerato dall’obbligo dei famosi guanti ignifughi, comodi, ma talmente spessi che non sentivi il volante. Lui, il naviga, doveva leggere il radar e le note, quindi mani libere. Un motivo in più per addossargli qualche colpa come vendetta per le sue mani nude. Anche se oggi nei rallye con la telemetria, le camera-car, i molteplici cine operatori sparsi lungo le prove è facile vedere chi realmente sbaglia; nella regolarità, la nostra regolarità con le vetture storiche, invece il tempo sembra essersi fermato. Anzi, il navigatore diviene doppiamente eroe. Primo, è costretto a schiacciare un pulsante sperando che sia in perfetto sincronismo con la ruote della macchina al momento che si passa sul famoso “tubo”. Secondo, non può più “uscire” dalla vettura per meglio vedere il tubo e questo giustamente, visto che qualche navigatore era talmente fuori dal finestrino che quasi “zuccava” l’asfalto. Questo però comporta di vedere tutti i navigatori incollati al vetro della portiera come un branco di manichini semi cechi, rigidi, con l’occhio sul mirino, alla ricerca del tubo. Pensa un po’ una schiera di persone che cercano un tubo…….
Oltretutto con l’attuale mania di fare tante prove brevi e corte, ogni piccola indecisione su di un bivio, diviene una tragedia greca, con il pilota che impreca verso l’inefficienza (mettiamola così) del povero “naviga” che fra radar, cronometro con i suoi maledetti “bip” che scorrono sempre troppo veloci ed il tubo che non arriva mai, spera sempre che un fulmine lo colga, mettendo fine a questo supplizio. Tutto ciò tenendo ben presente che almeno nei rallye c’era il brivido, quel sottile senso del rischio, quel “buco” allo stomaco che ti prendeva quando la macchina cominciava a sbandare entrando in curva e tu iniziavi mentalmente a snocciolare il rosario, con tutti i santi, sperando che quello li, con il volante fra le mani, non commettesse qualche “stronzata” perché il burrone era pronto ad aspettarti a braccia aperte. Ed il pubblico, quello che al “tornante destro chiude”, ti faceva segno incitandoti di andare più veloce. Se quello li, con il volante fra le mani, si fa prendere dal divismo, è finita: botta sicura. Oggi invece noi siamo tutti presi con le nostre auto storiche a scervellarci sui centesimi percorrendo magari le stesse strade di allora ma più larghe, perfettamente asfaltate, belle e scorrevoli. Ma allora questo “passeggero” divenuto “navigatore” è più suonato di prima? Certamente oggi molte cose sono cambiate, ma le macchine d’epoca sono sempre quelle e di conseguenza anche lo scaricabarile sul navigatore è tale. La causa di un brutto passaggio è sempre la solita storia: “il mio navigatore mi ha fatto sbagliare, non ha sdoppiato bene…”. Allora cade la fiducia. L’amicizia di decenni viene buttata alle ortiche per un centesimo…… “Non ci troviamo più ”…”ma oggi non è potuto venire….. .sai impegni di lavoro”….”ma oggi corro con mio figlio, mia moglie e magari…. mio nonno…” La moda di cambiare il secondo è sempre stata una componente anche nei rallye di un tempo ma non era conveniente farlo spesso. L’affiatamento, il sincronismo, erano troppo importanti per rischiare la macchina. Anzi si cercava di stare assieme, di trovare quel feeling che avrebbe permesso di partire tranquilli, uno completamente fiducioso dell’altro, uno inscindibile dall’altro. Chi non dimentica le lotte intestine nel cercare di accaparrarsi il miglior navigatore, di cercare in tutti i modi di convincerlo a sedersi al nostro fianco per l’intera stagione anzi, per anni. Munari-Mannucci, Balestrieri-Bernacchini, Paganelli-Russo, Bray-Rudy, Biasion-Siviero, Marku Alen e Ilkka Kivimaki, le grandi coppie rimaste impresse nell’epopea dei grandi rallye. Di quei magnifici anni il filo conduttore lo troviamo ancora oggi in Giuliano Canè e Lucia Galliani da oltre quarant’anni, uniti nella vita e nello sport, campioni assoluti della regolarità. Negli anni diverse sono state le coppie famose fra le auto storiche: Armando Fontana e Giovanni Adorni, Sandro Gamberini con Pier Luigi Nobili, Roberto Vesco e Valerio Bocelli, Bruno Ferrari e Bruno Pasini, Gian Maria Aghem e Rossella Conti, Tonino D’Antinone ed Amalia De Biase, Valerio Rimondi e Liana Fava, Pier Luigi Fortin e Laura Pilè, Antonino e Gaspare Margiotta ecc. ecc. ecc. Alla fine, questo “meccanico”, divenuto “passeggero” poi promosso a “navigatore”, dopo decenni, mezzo secolo, un secolo, sta sempre lì seduto su quel sediolo, attorniato da carte, penne, cronometri. Invisibile tanto che perfino alle premiazioni spesso si dimenticano di lui, di dargli una coppa. Ma lui è sempre lì seduto e non demorde, spera sempre, immerso nella sua enorme passione, di ricevere la sua fetta di gloria. Ma non sarà mica che anche il primo “meccanico”, messo al fianco di quel lontano pilota dei tempi eroici subisse la stessa cosa? Certamente all’arrivo anche lui scendendo da quella prima “automobili” sarà stato dimenticato dalla folla intenta a festeggiare il chauffeur, il vincitore e forse, togliendosi gli occhialoni e pulendosi il viso sporco d’olio, guardando il tubo ancora caldo della marmitta avrà pensato: “ma che passione del tubo”….
Fulvio Negrini
Grazie Fulvio.
ADRENALINE24H