Da ieri sera rimbalza, sulle maggiori testate automobilistiche ed economiche di tutto il mondo, la notizia della dipartita di Ferdinand Piëch. Un nome che forse può dire poco ai giovanissimi, ma ben noto a chi ha qualche primavera in più.
Una notizia, quella del suo addio, che merita forse qualche riga in più di un breve necrologio. Piëch è mancato improvvisamente nella notte di domenica, in seguito a un malore in un ristorante in Baviera, dov’era a cena con la moglie Ursula. Aveva 82 anni. A poche settimana di distanza dalla morte di un altro “mostro sacro” come Lee Iacocca, con Ferdinand Piëch scompare un altro degli ultimi “grandi” del mondo dell’automobile. Una di quelle personalità uniche e geniali di cui l’industria automobilistica moderna sente tanto la mancanza. Un uomo cresciuto a pane e motori, erede di una dinastia mitica come quella della famiglia Porsche (era nipote del fondatore Ferdinand, la cui figlia Louise ha sposato l’avvocato viennese Anton Piëch), che ha vissuto e cavalcato i decenni forse più poetici ed entusiasmanti del progresso tecnico, sportivo e commerciale del prodotto auto. Laureato in ingegneria meccanica al Politecnico di Zurigo con una tesi su un motore da Formula 1, nel 1963 Piëch entra nell’azienda di famiglia a Zuffenhausen, come responsabile prima del settore sviluppo e poi, nel 1971, del settore tecnico.
Eclettico, spregiudicato, Piëch negli anni ha “detto la sua” sia come ingegnere che come manager, lasciando un’impronta netta e definita tanto nel mercato quanto nel motorsport. Proprio dalle corse parte la sua ascesa, grazie al progetto dell’incredibile Porsche 917; una vettura che non ha bisogno di presentazioni e che nei primi anni 70 crea scompiglio sul circuito di Le Mans. Per il suo sviluppo, nel 1968, il giovane ingegnere brucia quasi completamente il budget destinato alle corse, attirando su di sé non poche critiche e antipatie. Ma herr Ferdinand dimostra di sapere il fatto suo, creando e mettendo a punto la vettura più ambita e vincente di quegli anni; una belva difficile da domare ma in grado di mettere in riga tutta la concorrenza, sia a Le Mans che nella Can-Am, e ancora oggi tra le auto da corsa a ruote coperte più desiderabili di sempre.
Nel 1972 arriva una rivoluzione in azienda: Louise Piëch e Ferry Porsche decidono che tutti i membri della famiglia devono ritirarsi da qualsiasi carica dirigenziale. Piëch ripiega sulla libera professione, aprendo un proprio studio di progettazione, e “riciclandosi” come caporeparto dello sviluppo tecnico “con mansioni speciali” in Audi, azienda di cui, nel 1975, entra nel consiglio di amministrazione e, nel 1983, diviene amministratore delegato.
È proprio ad Ingolstadt, dove ha sede la casa dei quattro anelli, che Piëch dà il meglio di sé, con lo sviluppo della trazione integrale quattro, che porterà Audi sulla vetta del campionato del mondo rally nel 1982 (costruttori) e nel 1984 (costruttori e piloti). Contemporaneamente avvia il riposizionamento del marchio, che diventa a tutti gli effetti un competitor delle tedesche “premium”, ovvero BMW e Mercedes. Il motto di Audi, “All’avanguardia della tecnica”, descrive chiaramente quella che, nella mente dell’ingegnere, è la mission del marchio. E dopo la diffusione della trazione integrale sulle vetture stradali, negli anni novanta la nuova rivoluzione si chiama ASF: acronimo di Audi Space Frame, ovvero la nuova tecnologia di costruzione dei telai in alluminio che, come nel caso della A8, ammiraglia Audi del periodo, si accoppia ad una carrozzeria pure in alluminio, con il risultato di una massa complessiva sensibilmente minore rispetto alla concorrenza, al pari dei consumi.
Tecnologia poi democraticamente applicata a un veicolo di fascia intermedia come l’Audi A2, monovolume compatta che, sul mercato, sconta il suo precorrere i tempi e un listino non esattamente popolare, ma che è in grado di percorrere 100 km con meno di tre litri di gasolio. E mentre Audi cala dall’alto e “democratizza” le sue soluzioni innovative, VW fa esattamente il contrario, sdoganandosi definitivamente dal concetto di “auto del popolo” per diventare il marchio di riferimento nel suo settore. La ricetta è composta da una qualità costruttiva di livello superiore e da operazioni talvolta in perdita ma di forte impatto mediatico, come il lancio della lussuosa Phaeton, ammiraglia tecnicamente e qualitativamente eccelsa e mossa da motori all’avanguardia come il 6.0 W12 o il 5.0 V10 turbodiesel, assemblata in uno stabilimento, realizzato appositamente a Dresda, quasi completamente trasparente per poter mostrare a tutti come vengono costruite le vetture.
Sono gli anni in cui il marchio tedesco fa incetta di altri marchi, da popolari come Seat e Skoda a premium come Lamborghini, Ducati, Bentley e Bugatti. Piëch mette insieme il Gruppo automobilistico più importante al mondo, con modelli a listino che spaziano dalle superutilitarie ad autentici mostri da oltre mille cavalli come la Bugatti Veyron, all’epoca la vettura di serie più sofisticata mai realizzata e prima auto targata in grado di superare i 400 km/h di velocità massima. La velocità è da sempre una fissazione di Piëch, che nel trattempo dal 1993 ha sostituito Carl Hahn come presidente del consiglio di amministrazione di Volkswagen, e che nel 2002 passa alla presidenza del consiglio di controllo, diventando parallelamente anche membro del consiglio di controllo di Porsche. Sfruttando le due cariche, egli è fautore dell’operazione che vede l’azienda di Stoccarda divenire proprietaria di circa il 21% delle azioni con diritto di voto di Volkswagen, che diventano il 31% nel 2007 e addirittura il 51% a inizio 2008. Nel marzo dello stesso anno si dimette dall’organo di controllo di Porsche, a seguito di pressanti accuse di conflitto d’interessi.
Nella primavera del 2015, dopo un’aspra faida interna con l’AD di Volkswagen, Martin Winterkorn, si dimette da presidente del consiglio di sorveglianza di Volkswagen. Appena in tempo per evitare le grane dello scandalo dieselgate. Cavaliere di Gran Croce al Merito per meriti verso la Nazione, laureato ad honorem all’Università Tecnica di Vienna e al Politecnico di Zurigo, cittadino onorario di Zwickau e Wolfsburg, dove ha sede la Volkswagen, dislessico per sua stessa ammissione e padre di almeno dodici figli da quattro diverse relazioni, Piëch è stato uno degli uomini più ricchi e influenti di Germania. Di sé stesso diceva: «Sono sempre stato un uomo focalizzato sul prodotto e mi sono sempre affidato al mio istinto per cogliere le esigenze del mercato. Affari e politica non mi hanno mai distratto dall’unico obbiettivo della nostra missione: sviluppare e realizzare automobili attraenti».
Michele Di Mauro